IL RAPPORTO FRA PSICHE E FISICITÀ
ECCO L’UOMO DI CONTEMPORANEA

Contemporanea in questa edizione 2012 porta una ventata di novità. Apre le porte, non sempre facili da varcare, fra quello che è il rapporto fra psiche e fisicità. Fra la ricerca di idee nuove, che sono da sempre prerogativa dell’inquietudine della mente, rapporto fra la loro volatilità e la fisicità del corpo che le contiene. Ognuno dei lavori presentato in questa rassegna, che sembra muoversi su una ricerca metafisica, basa parte della sua ricerca su quella che è la danza, e in particolare su quelle che sono le nuove tecnologie e la loro capacità di sostituirsi alle vecchie voci narranti degli anni del Novecento, che ci siamo ormai lasciati alle spalle da un decennio. Alle parole dei maestri si sono sostituite oggi le favole televisive. Allo spettacolo organizzato dai registi si è pian piano sostituito l’affollato anonimato dei ‘blog’, dove ognuno arriva, dice la sua e sparisce. In un recente convegno tenuto a Mantova dall’inquietante titolo di “Dove va la cultura europea”, che ha messo a confronto due intellettuali come Zygmunth Bauman e Cesare Segre, Bauman è stato icastico. Difficile dare una definizione di cosa sia la cultura oggi in Europa, certo non Facebook: fino a che questo non è stato creato - ha detto - nessuno aveva bisogno di bruciare tre ore davanti a un video per sapere cosa stiano facendo i suoi amici. Gli amici si incontravano scambiando idee e creando cose nuove. Cosa, questa, che non accade più. In verità, vien da pensare, avevamo bisogno di una fisicità fatta di carne e sangue e idee alla quale abbinare la nostra intellettualità. Non uno schermo azzurrino abbastanza imbecille, al quale, se chiedi informazioni sulla città di Kismaayo, ti dà la lista degli alberghi e dei ristoranti.

Contemporanea, che quest’anno ha un cartellone particolarmente ricco, sembra voler anticipare questo dibattito che si sta preparando a esplodere. Il rapporto corpo mente. Il futuro di una cultura che sembra voler fare sempre più a meno dell’individuo e affidarsi ogni giorno di più alla macchina. Vuol riproporre sia i sintomi di una cultura che si è andata via via perdendo lungo la strada, sia la potenzialità immensa della mente.

Ed è su queste linee guida che si muovono spettacoli come Terra Nova dei Crew, dove lavorando con la live art si punta a coinvolgere la forza viva della corporeità a quella di una ricerca interiore profonda che rappresenta davvero una terra nuova sulla quale fondare una cultura ricca di contemporaneità. Un nuovo umanesimo. Anche Yan Duyvendak in My name is Neo porta alle medesime conclusioni, con un monologo che si svolge attorno a un totem Tv, una sorta di Moloc del nostro tempo, che si può anche nascondere ma che alla fine sembra volersi sostituire alla nostra razionalità e sconfiggere chi le si oppone. E per riportarci al rapporto diretto interpersonale, bisogna seguire con attenzione L’origine del mondo: tre donne che dialogano sul loro ruolo di creatrici e non spargono feromoni ma compianto per la loro condizione, spargono semmai i semi della depressione portate sulle ali di una comunicazione confusa. Ambigua. Senza tempo. E in questo contesto si muovono Fanny & Alexander con East che, riprendendo il tema del loro precedente lavoro Heliogabalo, tornano a dar forza a un teatro ch’è fatto di ribellione assoluta, di sconvolgimento della comunicazione fino a una sorta di bonaccia. Come una resa. O una ripresa.

Sarebbe interessante passare in rassegna l’intero percorso che Contemporanea ci fa seguire in questa sua edizione, offrendoci numerosi spunti di riflessione sia su dove sta andando, e come ci sta andando, il teatro, soffermandosi sul fatto che questa rassegna del futuro non ha dimenticato un grande innovatore del passato, Carmelo Bene, al quale è dedicata una serata di letture. Bene, al Metastasio ha lavorato molto e con grande passione, impostando molti suoi spettacoli dei primi anni. Il Met intende ricordarlo nell’ambito del festival, assieme a tante altre manifestazioni che si protrarranno per una quindicina di giorni e che interesseranno, mi auguro, un pubblico giovane.

Buona visione con Contemporanea.

Umberto Cecchi
Presidente del teatro Metastasio

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Il festival Contemporanea è arrivato alla sua decima edizione.
Dieci anni che hanno stravolto l'assetto politico del mondo, che ne hanno cambiato la fisionomia, che hanno stravolto i fragili equilibri nei quali ci eravamo costretti a credere.
E si può dire che molti degli artisti che hanno partecipato negli anni passati a questo festival avevano in qualche modo annunciato questi stravolgimenti.
Perché l'artista molto spesso riesce a sentire anche senza capire, a formulare le proprie intuizioni, a gridare la propria paura e le proprie insoddisfazioni molto prima che la filosofia o la politica riescano a farlo.
Ricordate il ruolo dell'oracolo greco o del vate romano? O del ‘ridicolo’ mediterraneo che ancora era identificabile nelle nostre città prima degli sconvolgimenti urbanistici iniziati alla fine degli anni sessanta?
La cultura del ‘sacro oracolo’ era ancora visibile in una società che si trovava ancora in una fase di passaggio, ancora salvata dalla forte presenza delle campagne che parevano ancora resistere all'assalto del cemento.
‘I ridicoli’ arringavano ancora nelle piazze ascoltati e riveriti da pochi intellettuali e da folle di ragazzi ancora in pantaloni corti. I ginocchi sbucciati, il sorriso sarcastico, gli occhi febbrili.
Il Paese non solo non aveva ancora assimilato, ma pareva non aver addirittura recepito il terribile messaggio che Adorno aveva già da tempo inviato al mondo.
In sostanza il grande filosofo tedesco aveva annunciato il ‘Grande Cambiamento’: dopo Auschwitz la musica e la poesia non saranno più le stesse, perché dovranno rispondere ad un paesaggio che rappresenterà la morte di una cultura che ritenevamo, pur nei suoi molteplici mutamenti, eterna.
Ed è in questo paesaggio funebre che nasce il nuovo discorso poetico di Beckett e il silenzio musicale di Cage. È lì che si muove Stockhausen e che si dispera Maderna…
È il mondo che cambia assumendo sempre più un aspetto cimiteriale, togliendo alla vita i sogni utopici e riducendola ad un viaggio pianificato.
Alvar Aalto in una famosa lezione di architettura aveva dimostrato che in un chilometro può ormai consumarsi una vita e ironizza mostrando case, scuole, supermercato, banca , cinema e cimitero in una lunghezza di 958 metri, mostrandoci i risultati agghiaccianti della nuova filosofia ‘funzionale’, che ci mostrerà con cinquant'anni d'anticipo la vita di oggi.
Una vita dove non sarà più necessario produrre beni materiali, perché saranno prodotti dai popoli poveri, ma solo servizi.
Una vita dove non sarà più necessario ‘pensare’ un mondo migliore, perché l'ideologia sarà ridotta al mero asservimento della finanza.
In sostanza il senso dell'esistenza sarà quello di lavorare nel vano tentativo di pagare alle banche un debito perenne, e la felicità consisterà nel morire con la sicurezza di arrivare al cimitero con una relativa tranquillità economica.
‘La Grande Trasformazione’ si serve della ‘Grande Illusione’, ed è proprio nella prima metà degli anni sessanta che la gente crede che il mondo sarà migliore.
Ma lo crede perché non capisce che quei segnali di ricchezza che distruggeranno la civiltà contadina, distruggeranno poi anche quel neo-capitalismo ancora dal volto umano, che non sospettava l’arrivo anche della propria imminente fine.
È in quel periodo, quando la maggioranza crede che tutto andrà bene, che l'arte borghese non prende in considerazione il discorso di Adorno, persistendo in una decadenza dorata, spinta dalla voglia di dimenticare le colpe della guerra e di ignorare i forti conflitti sociali.
È in quel periodo che ‘i ridicoli’ scompariranno dalle piazze delle nostre città, sostituiti da nuovi Vati che non accettano il gioco.
Ed è in quel periodo che il Metastasio apre con forza e grande coraggio le porte ai nuovi oracoli che attaccano violentemente il Paese.
Da Fo a Strehler, da Carmelo Bene al Living, da Ronconi a Castri.
E qui mi fermo per non ripetere ancora una volta un discorso che altrimenti rischia di diventare noioso.
Mi fermo naturalmente con il passato remoto del Teatro Metastasio, per ritornare a dieci anni fa.
Al momento della creazione di Contemporanea.
L'esigenza non fu ‘solo’ artistica, ma indubbiamente anche politica.
Si trattava di riprendere un ‘discorso continuamente interrotto’, per dirla con Gadda.
Si trattava di restituire un vero e proprio pulpito al vaticinio degli artisti moderni che sentivano l'urgenza di parlare del nostro domani; di riformulare i nostri bisogni, di dar corpo e forma alle nostre paure, di restituirci il senso di un ‘nuovo pensare’. Di farci, in un certo senso, coraggio.
Questo è il valore indiscutibile del nostro Festival.
Io in quest’anno ho avuto il piacere di dialogare con la Direzione di Contemporanea, di riflettere, e sono fiero di aver dato un piccolo contributo in questi tempi difficili.
Sono sicuro che questa sarà un'edizione memorabile, impegnata com'è a dipanare il Filo Rosso di Arianna. Un filo che ci porterà nel nostro futuro.
Grazie.
Paolo Magelli

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Contemporanea 10: “condannati” all’orizzonte
Conversazione con Edoardo Donatini di Massimo Marino

Contemporanea arriva alla decima edizione. Da quale idea nasce?
Volevamo creare fin dalla sua prima edizione nel 1999 un luogo e un’opportunità di espressione e di visibilità per percorsi di nuova generazione. Il cuore del festival, dagli inizi, è stato quello che ho chiamato ‘Alveare’.

Più tardi discuteremo del perché quest’anno gli alveari tacciano. Intanto vogliamo raccontare cosa sono stati?
La volontà era quella di creare un luogo dove gli artisti fossero chiamati sulla base delle loro urgenze creative. Si raccoglievano progetti performativi sganciati da logiche produttive e distributive. Possiamo definire gli alveari un luogo di sperimentazione, un laboratorio a cielo aperto che si incrociava con la sensibilità del pubblico.

Siamo alla fine degli anni ’90. Quanto gli alveari e la stessa concezione del festival sono stati influenzati dall’emersione dei gruppi della Generazione ’90?
Eravamo sulla stessa onda di quello che succedeva allora nel teatro italiano, con una peculiarità tutta locale. Il festival, con la sua voglia di sperimentare, è stato concepito da persone come me che vivevano un confronto trasversale tra le arti, molto sentito a Prato. Non a caso qui ha sede lo stabile regionale; qui viene aperto il centro d’arte contemporanea regionale, il Museo Pecci, qui agiscono altre strutture come il Magnolfi, Officina Giovani, il Museo del Tessuto, tutti luoghi che hanno accolto gli alveari. Noi siamo figli di quello spirito aperto agli sconfinamenti della ricerca artistica. Il festival è sorto a Prato perché qui dialogavano questi elementi diversi, e naturalmente guardava agli artisti della Generazione ‘90, che erano tutti nostri colleghi, coetanei, perfetti interlocutori. Qui si sono installati gruppi come Kinkaleri e si sono sviluppate relazioni costanti e articolate con compagnie come Motus, Fanny & Alexander… Nel 2007 abbiamo dedicato un’edizione di Contemporanea proprio a ripensare il percorso di quella generazione teatrale.

A supporto della mappa che delinei bisogna notare che non molti altri teatri stabili hanno mostrato altrettanta apertura verso il contemporaneo.
È, credo, una sensibilità inscritta nel dna di questo teatro, nella politica teatrale che Prato ha sviluppato per quarant’anni dai tempi del Laboratorio di Ronconi, e prima ancora con quella meravigliosa esperienza del Teatro Studio che alla metà degli anni ‘60 fu il primo motore di tutta questa avventura, trasformandosi in quell’amore per gli incroci di cui parlavo.

Torniamo a raccontare gli alveari?
Sono stati una zona franca dove gli artisti invitati potevano sperimentare le proprie necessità creative. Il primo spazio che li ha ospitati, il museo Pecci, imponeva delle semplici regole: ogni artista aveva un luogo determinato e un tempo di circa 15-20 minuti. In quel contesto non aveva senso né un allestimento né uno spettacolo, ma qualcosa che abbiamo identificato come azione performativa. Non erano gli ‘studi’, i ‘corti’, i ‘fuori formato’ che poi hanno invaso la scena, spesso generati da altre esigenze. La durata era determinata dall’ambito collettivo e da esigenze di tenuta: l’alveare durava una settimana e comprendeva vari artisti, che in quel tempo e in quello spazio di lavoro si osservavano, dialogavano. Era un progetto che non serviva al festival ma alla creazione, alla relazione con il pubblico; che aveva come obiettivo quello di far nascere nuove sensibilità. L’alveare era un luogo di epifania continua, di moto perpetuo creativo, qualcosa che faceva nascere qualcos’altro che faceva nascere qualcos’altro che faceva nascere qualcos’altro ancora…

Come si è sviluppato il progetto iniziale?
Grazie al consenso del pubblico e all’interesse degli artisti le sezioni, negli anni, si sono moltiplicate. Nelle sale espositive del museo Pecci abbiamo continuato a ospitare realtà che avevano già configurato e confermato il loro progetto espressivo. Negli spazi di Officina Giovani abbiamo offerto totale libertà a nuovi gruppi che potevano sperimentare in ‘caduta libera’. Hanno partecipato a questi ultimi alveari molte delle compagnie che si sono affermate di recente, da Teatro Sotterraneo a Menoventi e altre. Tante si sono perse per strada o hanno diluito, col tempo, il loro impegno.

Lo spirito sperimentale del festival è testimoniato anche dagli incontri dedicati all’organizzazione e alla critica teatrale. Da quali esigenze nascono?
Sentivo il bisogno di discussioni vere, non in forma di conferenze nelle quali ognuno dice la sua e va via. Proposi perciò a critici, organizzatori, direttori artistici di ritrovarsi per discutere schiettamente dei problemi dei rispettivi campi, a porte chiuse, per poter andare a fondo nelle questioni. Nel 2003 vide la luce quel manifesto del “Critico impuro” che è stato variamente ripreso, discusso, che parecchio ha smosso. Nel 2005 da un laboratorio di critica nacque il gruppo Altre Velocità, che è diventato una delle voci importanti della riflessione odierna sul teatro. Certo, la critica non ha smesso di essere in crisi: ma qualche processo lo abbiamo messo in moto.

E per quanto riguarda l’organizzazione teatrale?
Le discussioni si sono confrontate con gli scenari inediti succeduti all’esaurirsi degli ultimi strascichi degli anni ’90. I festival sono diventati sempre di più un ‘mercato’ alternativo, nel quale circolano sempre le stesse compagnie, per lo più escluse dal giro maggiore. Un problema che ci siamo portati dietro per tutti gli anni Duemila è che la stabilità, spesso anche quella d’innovazione, non assorbe le nuove generazioni. In quelle riunioni, che oggi mi sembrano riprendere il modello del simposio, abbiamo individuato questi temi al loro primo manifestarsi. Credo che siamo riusciti a proporre tesi per la discussione.

Contemporanea, però, comprende anche una rassegna di spettacoli, spesso ricca di presenze internazionali.
Da Contemporanea sono passate importanti realtà della scena europea e mondiale, spesso per la prima volta in Italia. Abbiamo vissuto anche momenti controversi e drammatici, come quando Rodrigo García ha presentato Matar para comer, in cui si uccideva un astice per cucinarlo. Oggi credo che la presenza straniera sia ancora più importante. Abbiamo bisogno di confrontarci con realtà produttive e con visioni differenti dalle nostre.

Come ti orienti, per le tue scelte, in un panorama vastissimo, in Italia spesso poco noto?
Intrattengo rapporti con i principali circuiti internazionali e mi concedo qualche scorribanda in giro per l’Europa. C’è da dire che in questo campo non esistono ricette sicure. Per vari motivi, primo tra tutti la scarsezza di risorse economiche, non sempre si riesce a osservare con la dovuta attenzione ciò che avviene fuori d’Italia. Altrove, in Francia per esempio, i direttori artistici hanno il compito istituzionale di seguire il teatro internazionale e si incontrano in riunioni periodiche per scambiarsi informazioni e opinioni.

Vogliamo parlare di questa decima edizione?
Sì, ma prima è necessaria una premessa. Il principio che ha mosso Contemporanea in questi anni è stato quello di costruire opportunità, di sperimentare occasioni artistiche che potessero crearne delle altre. Tale spirito rimane vivissimo, nonostante qualche cambiamento. Il festival non è solo un assunto teorico: per funzionare deve diventare un corpo organico in movimento. Forse perciò non ha avuto mai un unico filo conduttore ma ha sempre scelto di raccontare quello che succede nella scena, costruendo reti, progettualità, strategie, secondo un’evidente intenzione di politica culturale

Ma come mai rinunciate proprio al vostro marchio di fabbrica, agli alveari?
C’era la necessità di interrompere un cammino che si stava ripetendo; di fare un punto, di fermarsi per guardare indietro, per tirare le reti e vedere cosa è rimasto in questo lungo rivelare, trattenere, rilanciare. In questa edizione l’aspetto performativo sarà marginale, a favore di altri tragitti emergenti. Quest’anno presteremo attenzione alle opere compiute, ai percorsi espletati, all’esperienza dell’artista realizzata nella messa in scena. Ma non verrà meno quello spirito trasversale di cui si parlava.

Puoi illustrarci, per sprazzi, il programma?
Accanto a conoscenze consolidate si manifesta anche una nuova attenzione alla drammaturgia: Lucia Calamaro ricompone per noi la sua tetralogia L’origine del mondo in un’opera unica. Fabrizio Arcuri arriva con una produzione classica, da palcoscenico, mostrando un cammino che dalla Generazione ’90 lo ha portato verso interessanti passaggi, diversi da quelli dei suoi colleghi. Claudio Morganti tiene un seminario e organizza un incontro intitolato Raduno degli artisti della scena, in cui si discuterà di aspetti culturali e di esigenze creative, evitando lamentele e questioni organizzative o distributive.

Come si compone la rassegna internazionale?
In questo caso il nucleo è costituito da Transarte, un progetto che attraversa quattro festival italiani in un dialogo con la Francia. Comprende gruppi nostrani e transalpini, scelti attraverso una serie di incontri e discussioni. A Prato saranno presenti Kinkaleri, Fanny & Alexander, Santasangre e i francesi Philippe Quesne, Jonathan Capdevielle, Giuseppe Chico. Ma Contemporanea ospita anche lo svizzero Massimo Furlan e compagnie di danza come quella di Lisbeth Gruwez e la deliziosa giapponese Kaori Ito.

L’apertura è affidata a Crew, con Terra Nova. Di cosa si tratta?
È uno spettacolo che ha girato tutta l’Europa, per soli 55 spettatori, immersi, tramite caschi, visori, cuffie, in una realtà virtuale che simula, su tavoli basculanti, una storica spedizione al Polo Sud. È un teatro elettronico e sensoriale.

Che cosa ancora ci riserva il programma?
Un omaggio a Carmelo Bene e altro. Presenteremo Isola, testo di un giovane autore pratese, Tommaso Santi, con la regia del direttore del Metastasio Paolo Magelli. Questo debutto chiude Contemporanea e apre la stagione del Metastasio, a indicare che tra la ricerca e la tradizione non ci può più essere soluzione di continuità. E un’altra importante prima di questo tipo sarà il nuovo lavoro del Tpo, Corbezzoli, che inaugura anche la stagione per ragazzi dello Stabile.

Vi sentite all’altezza della vostra storia?
In un momento di crisi come questo proviamo l’esigenza di fermarci, di guardarci indietro per prendere un passo diverso, più riflessivo. Oggi c’è bisogno di guardare con occhio disincantato al processo artistico. Forse in questi anni abbiamo ingurgitato troppo rispetto alla giusta frequenza con cui bisogna osservare le dinamiche dell’arte. Abbiamo dopato il sistema, chiedendo vorticosamente novità. Molte volte, probabilmente, il nuovo non c’era e lo abbiamo ‘inventato’. Ora è necessario osservare quello che è rimasto davvero. La crisi del sistema, evidente, può servirci per ripartire. Noi siamo ‘condannati’ a scrutare sempre l’orizzonte.